Embodied o disembodied?

Prima di iniziare una pratica Yoga con i miei studenti, facciamo quello che chiamo Embodied Check-in (ispirato agli insegnamenti della psicologa Bo Forbes).

L’ embodied check-in inizia quasi sempre con la domanda seguente: “sono presente nel mio corpo? se sì, quanto sono presente nel mio corpo?” e di solito aggiungo, che la domanda potrebbe non avere senso o non avere una risposta, e che è più importante continuare a porsi la domanda piuttosto che darsi una risposta. A forza di porsi la domanda, la risposta finalmente emerge dal nostro corpo.

Il check-in prosegue con il domandarsi se siamo o no in grado di ricevere sensazioni, di vario tipo, dal nostro corpo, quali sensazioni di calore, freddo, pressione, ma anche di fastidio, tensione o alternativamente di agio o benessere. Con queste domande valutiamo la nostra capacità di interocezione.

Anche se durante il check- in non uso, di solito, il termine embodiment, la domanda iniziale potrebbe essere formulata anche come : “Qual è il mio livello di embodiment? “

Embodiment è un termine inglese, che in questi ultimi anni ha acquisito grande popolarità, soprattutto nel mondo del movimento contemporaneo, in parte grazie anche alla ricerca scientifica, che ne sta dimostrando la assoluta importanza, per il mantenimento della nostra salute fisica, ma soprattutto mentale. 

Emdodiment potrebbe essere tradotto in italiano come incarnazione (che non mi suona molto bene, preferisco il termine inglese), ossia la mente (e spirito) che si incarna nel corpo, e nel processo di incarnazione la separazione tra mente e corpo rimane solo un costrutto mentale, in quanto la mente in realtà è nel corpo e il corpo è anche mente.

Quando ho iniziato a praticare Yoga seriamente, circa 7 anni fa, non avevo mai sentito il termine embodiment e non avevo neanche idea che molti dei miei disagi fossero dovuto ad un senso di disembodiment, ossia il contrario dell’essere embodied, ovvero non essere completamente presenti nel proprio corpo.

Se non si è presenti del tutto nel corpo, dove si sta? Io vivevo principalmente a livello della mente, identificata con la parte di me al di sopra del collo, la testa.

Quando non si è presenti nel corpo, il senso del proprio sè viene definito dalle condizioni esterne al corpo, si è più vulnerabili al condizionamento esterno, e si finisce col credere di volere ciò che gli altri (e la società in generale) si aspettano da te. Non si è in contatto con i propri desideri più autentici.

Ma soprattutto, quando non si vive pienamente dentro al proprio corpo, non si ha accesso a quel senso di vitalità e di appartenenza che l’embodiment ci dá. 

Quando non viviamo pienamente nel corpo, ci sentiamo estranei a questa realtà, ci sembra di essere isolati e non appartenere a nulla. Ci riesce difficile accettare che qualcun’altro possa davvero volerci bene, perchè, sebbene lo sappiamo razionalmente, non riusciamo a sentirlo dentro. Queste sono almeno le mie esperienze di disembodiment, del non essere del tutto presente nel mio corpo (la definirei una forma lieve di dissociazione, dove invece ci si potrebbe addirittura vedersi dal di fuori).

L’immagine che mi ero creata da adolescente, per dare voce a queste sensazioni, che non comprendevo, era  quella di camminare sulla spiaggia, senza lasciare impronte. E come avrei potuto lasciare impronte, se non conoscevo il significato del grounding, dell’essere ancorata alla terra, di avere il diritto, come tutti gli altri, di riceverne il supporto incondizionato? 

Un corpo che non vuole ancorarsi a terra e che piuttosto preferirebbe volare (quanto ho volato nei miei sogni!), è un corpo leggero, che non vuole o forse non può prendere peso. 

Sono stata magra per tutta la mia vita e oggi penso che questa magrezza abbia simbolicamente rappresentato l’impossibilità di ancorarsi a terra. Il mio peso è stato praticamente costante per circa 40 anni.

Ora arrivata ai 50, mi trovo con una decina di chili in più rispetto a quel peso, però mi sento molto più grounded ed embodied. Ho finalmente un peso che mi porta giù, che funziona da zavorra, che mi impedisce di lievitare e che mi fa apprezzare l’essere viva e presente, qui in questo momento, in pieno diritto a camminare su questa terra.

Lo Yoga mi ha supportato nel percorso verso l’embodiment, ma non è stato il primo tipo di pratica alla quale mi sono accostata ad avermi aiutata.

All’inizio praticavo uno stile di Yoga molto intenso, attivo e veloce, chiamato Vinyasa flow. In questo tipo di classe, molto popolare negli Stati Uniti, ci si muove in coordinamento con il respiro, ma le pose si susseguono abbastanza velocemente, senza troppe pause dedicate all’ ascolto delle sensazioni del corpo. L’ obiettivo di questo tipo di Yoga è soprattutto l’esercizio cardio-vascolare, nonché il piacere di praticare posizioni sempre più difficili, mettendo alla prova la propria forza, flessibilità ed equilibrio. 

Queste classi erano super divertenti e alla fine mi sentivo piena di energia, ma anche rilassata e in uno stato di benessere, che ascrivo senza dubbio al rilascio di endorfine. Peró il resto della mia giornata non sembrava trarne particolare giovamento. 

Aposteriori mi sono resa conto che in quelle classi coltivavo molto la propriocezione, ma non davo nessuno spazio alla interocezione. Sapevo esattamente dove le mie gambe o braccia stavano nello spazio (propriocezione), ma non avevo acquisito una maggiore capacitá di sentire le gambe o le braccia dal di dentro (interocezione), nonché altre parti del corpo, inclusi gli organi interni.

Non sapevo di essere disconnessa dal mio corpo, per me quella era la condizione naturale del mio stare al mondo. 

Durante la pratica del body scan, quando si viene invitati a portare attenzione alle sensazioni di varie parti del corpo, non riuscivo a comprendere perché talvolta le istruzioni date fossero così dettagliate: senti il pollice, senti l’indice, il medio, l’anulare, il mignolo. Io riuscivo solo ad immaginare le aree che teoricamente avrei dovuto sentire, come se sovra-imponessi una mappa immaginaria sul mio corpo, dato che quest’ultimo non mandava nessun messaggio. A livello della mano, la mia immaginazione riusciva a produrre solo un blob, una massa dove distinguere le dita, come separate le une dalle altre, sembrava un’ impresa impossibile. Probabilmente, se avessi avuto una maggiore capacitá di visualizzazione, avrei continuato a visualizzare la mia mano con dettaglio, pensando di sentirla, e non mi sarebbe sorto nessun dubbio o perplessità.

Ma poi, ad un certo punto, una rivelazione!

Nel corso di una pratica di respiro, in cui venivamo invitati a portare l’attenzione a varie parti del corpo, visualizzando di condurre il respiro in quella aree, come dall’interno, sono finalmente stata in grado di sentire la mia mano, non più come una immagine sovrapposta, ma come un insieme di sensazioni provenienti dall’interno della mano stessa! E da qui è iniziato il mio percorso di embodiment e di riappropriazione del mio corpo, come felt sense, come corpo sentito. 

Nel frattempo avevo iniziato un corso di Yoga terapia e quindi mi sono accostata ad un tipo di Yoga diverso, uno Yoga dove ci si muove molto più lentamente, dove si porta costante attenzione alle sensazioni corporee evocate, sia durante il movimento che nelle pause tra le pose. Uno Yoga mindful, contemplativo, dove qualsiasi cosa emerga viene osservata senza giudizio, provando a non crearci sopra una storia.

Alla fine di queste classi di Yoga lento e consapevole, mi sentivo come se fossi ritornata a casa, non era quel senso di benessere da endorfine che provavo alla fine delle classi attive di Yoga, era un senso di riappartenenza al proprio corpo, come se tutto il mio interno e il mio esterno avessero ritrovato il loro posto, riorganizzandosi armoniosamente.

Oggi mi accorgo subito quando comincio a non essere più del tutto presente nel mio corpo, e lo sperimento come un senso di disagio, un senso di malessere che ha una qualitá antica, riconoscibile. Allora capisco che ho bisogno di praticare il mio slow mindful Yoga.

Se ho abbastanza tempo, mi piace praticare seguendo le classi di Kristine Weber, una insegnante americana, fondatrice del Subtle Yoga.

Se per qualsiasi motivo (in vacanza ad esempio) ho praticato poco, quando ritorno alla pratica Yoga, mi capita di piangere per la gioia di ritrovarmi di nuovo, in questo corpo, dove la vita vive.

Nelle mie classi di Mindful Yoga mi pongo l’obiettivo, non sempre apertamente dichiarato, di iniziare e/o accelerare il percorso di embodiment per i miei studenti. A me sono voluti due anni di pratica Yoga e di esplorazioni, prima di riconnettermi al mio corpo e per i miei studenti mi auguro un tempo più breve!

Alla fine delle classi, rifacciamo l’embodied check-in. Siamo o no presenti nel corpo? Spesso, a questo punto, la domanda comincia ad avere più senso…

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